Settimana della prima domenica dopo l’Epifania – Sabato
Esodo
Es 3, 7-12
Lettura del libro dell’Esodo
In quei giorni. Il Signore disse a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte».
Il Sabato non leggiamo il libro del Siracide; come sappiamo l’ordinamento delle Scritture è diverso in questo giorno che introduce alla festa. La sapienza liturgica lega insieme due brani di vocazione e un Vangelo sul tema della legge.
Partiamo dalla vocazione di Mosè, il primo brano della Scrittura. Come ben sappiamo Mosè è considerato l’inizio della legge di Israele. La sua vocazione dice già quello che accadrà. Dio che “ha udito il grido del suo popolo” suscita un uomo dotato di una fede straordinaria, un “illustre” per usare il linguaggio del Siracide che dedicherà uno dei suoi medaglioni anche a Mosè. Sarà proprio Mosè a suscitare l’Esodo, a dare la legge ad Israele. Quella legge che porterà a “servire Dio su questo monte”, come concludeva il brano della sua vocazione, il Sinai, il monte sul quale Mosè riceve la legge di Dio, i comandamenti dai quali nasce tutta quanta la legislazione di Israele.
Galati
Gal 1, 13-18
Lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni.
Uno dei massimi interpreti e studiosi della legge è San Paolo, che fa della conoscenza di tutta la legge ebraica il suo vanto. Eppure, ricorda San Paolo, c’è qualcosa che vale ben più della legge, ed è la libertà dei figli di Dio, quella libertà con cui anch’egli ha accolto quella vocazione straordinaria che lo ha portato a divenire l’apostolo di tutte le genti. Per San Paolo quello che era un vanto si è trasformato in una perdita. Egli ha dato tutto sé stesso per la conoscenza, la predicazione, l’interpretazione della legge. Ma, di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo, anche la legge di cui era orgoglioso, cade. L’orgoglio di Paolo lascia il passo alla conoscenza di Cristo.
Vangelo
Lc 16, 16-17
✠ Lettura del Vangelo secondo Luca
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi. È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge».
Gesù precisa. La legge di Mosè ha avuto la sua epoca, ha portato il suo frutto, ha svolto, insieme ai profeti, il suo ruolo di maestro, di tutore di Israele. Ora che Lui è presente, occorre che ciascuno si sforzi di conoscere la sua persona e di entrare nel “regno di Dio”, cioè in quell’ottica di amore, di vicinanza, di adesione al progetto di Dio che è il cuore di tutta la predicazione evangelica.
Questo non toglie valore alla legge, anzi, essa rimane in tutto il suo splendore. Essa è Parola di Dio e la Parola di Dio è eterna e non finisce mai il suo compito di donare grazia agli uomini. È per questo che anche noi leggiamo quella Parola che è la legge, non soccombendo nei suoi meandri, non vantandoci di conoscerla, ma relativizzando tutto a Cristo, rileggendola alla luce del mistero pasquale di Cristo che la rende vera e perenne.
Per noi:
Il contenuto delle Scritture di oggi ci regala questo insegnamento: di nulla si può vantare l’uomo che è chiamato a fare una straordinaria esperienza di Dio nella sua vocazione. Solo quando l’uomo rimette la sua libertà a disposizione di Dio, allora nascono quei grandi e durevoli frutti che sono già un anticipo di vita eterna, un richiamo alle realtà immutabili, definitive, eterne, attraverso le quali Dio chiama tutti a sé e ogni cosa ad essere riepilogata in Cristo.
Il contenuto difficile delle Scritture deve renderci consapevoli del valore della tradizione, del valore delle cose della fede, anche quelle del passato glorioso da cui proveniamo, non per rimpiangerle, non per assolutizzarle, al contrario, per relativizzarle a Cristo. Cristo è sempre lo stesso, ieri, oggi, nei secoli, come la Parola di Dio, come la legge, che rimangono punti saldi con cui confrontarsi nel cammino di fede. Tutto, se rimesso in Cristo, acquista il suo senso e giunge al suo vero splendore. Se anche una minima cosa viene assolutizzata, essa perde il suo splendore e non giunge a quella maturazione per cui Dio l’aveva pensata e creata.
È una lezione di sapienza difficile, che può portarci a chiederci:
- Sono realmente capace di relativizzare ogni cosa a Cristo?
- Sono libero da ogni cosa per amore di Cristo?
Beati noi se sapremo fare come San Paolo, per giungere a quella sapienza di fede che, sola, rende ragione del nostro essere credenti.