Martedì della terza settimana dopo l’Epifania
Meditiamo insieme le Scritture.
Siracide
Sir 44, 1; 48, 15b-21
Lettura del libro del Siracide
Facciamo ora l’elogio di uomini illustri, dei padri nostri nelle loro generazioni. Il popolo non si convertì e non rinnegò i suoi peccati, finché non fu deportato dal proprio paese e disperso su tutta la terra. Rimase soltanto un piccolissimo popolo e un principe della casa di Davide. Alcuni di loro fecero ciò che è gradito a Dio, ma altri moltiplicarono i peccati. Ezechia fortificò la sua città e portò l’acqua nel suo interno; con il ferro scavò un canale nella roccia e costruì cisterne per l’acqua. Nei suoi giorni Sennàcherib fece una spedizione e mandò Rapsache; alzò la sua mano contro Sion e si vantò spavaldamente nella sua superbia. Allora si agitarono loro i cuori e le mani, soffrirono come le partorienti. Invocarono il Signore misericordioso, tendendo le loro mani verso di lui. Il Santo li ascoltò subito dal cielo e li liberò per mezzo di Isaia. Egli colpì l’accampamento degli Assiri, e il suo angelo li sterminò.
Il discorso del sapiente è fortemente storico. Dopo la scissione del regno di cui parlavamo ieri, ecco un altro dramma: la deportazione che mise fine all’esperienza politica del popolo di Israele. Il testo, tuttavia, invitava alla speranza. Il sapiente ricordava come rimase in Gerusalemme un piccolo “resto”, pochi uomini che non vennero deportati. Tra costoro ci furono coloro che oltraggiarono il nome di Dio e si persero nel peccato, ma anche coloro che rimasero fedeli. Furono proprio costoro ad invocare il nome del Signore durante le ripetute invasioni ed assalti alla città, e, come abbiamo sentito, “il santo li ascoltò e subito dal cielo li liberò per mezzo di Isaia”. C’è dunque un piccolo numero di uomini fedeli che invoca Dio a nome di tutti e che ottiene la salvezza per tutti. Salvezza che passa, comunque, attraverso le mani degli uomini. La preghiera fatta a Dio suscita Isaia, come liberatore della città e ricostruttore delle sue case. Il sapiente ci propone un modo di rileggere la storia decisamente fecondo: egli non guarda alle colpe di chi ha abbandonato empiamente la fede e Dio, ma ai meriti di coloro che sono rimasti fedeli. Non conta il fatto che siano pochi, conta solamente il fatto che furono proprio essi ad attirare la benedizione di Dio su tutto ciò che rimaneva di Gerusalemme.
Vangelo
Mc 4, 26-34
✠ Lettura del Vangelo secondo Marco
In quel tempo. Il Signore Gesù diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
È questo anche l’insegnamento di Gesù, che nella parabola, spiega come la fede cresca in modo misterioso nel cuore di un uomo. Appunto come il seme che l’agricoltore getta nel campo. Il contadino non sta a vegliare su di esso sempre. Lo getta, lo ricopre con la terra e se ne va, fino a quando germoglia, cresce, e, poi, giunge il tempo per la mietitura. Oppure come il chicco di senapa, il più piccolo dei grani che sono nell’orto e che il contadino semina in vista dell’estate, per avere ombra nei giorni caldi del sole. Non solo lui, perché l’arbusto diventa capace anche di ospitare gli uccelli del cielo e di offrire un riparo anche per tutti loro.
È chiaro il paragone: l’uomo di fede, che rimane attento alla Parola di Dio, vede germinare la fede dentro di sé in modo del tutto inaspettato e, anzi, inspiegabile. La sua fede, diventata poi robusta, non è solo a giovamento suo personale, ma diventa un riparo anche per gli altri, diventa un punto di riferimento anche per altre persone che potranno approfittare della sua saldezza di fede per trarre esempio o conforto nei loro giorni.
Per Noi
Come ho già detto viviamo in un tempo in cui molti uomini vivono senza Dio o, comunque, fanno come se Dio non ci fosse. Spesso ci lamentiamo di tutto questo e non sempre comprendiamo bene che a noi è chiesto di essere quel resto fedele che rimane vicino a Dio e che rimane come punto di riferimento e come baluardo di fronte a tutto. Ecco il nostro compito! Ricordiamoci sempre che la nostra fede, il nostro pregare, il nostro venire in chiesa per celebrare la S. Messa, non porta frutto solo a noi. Infatti la grazia di Dio che scende su di noi, invocata dalla nostra preghiera, è senza confini e va a giovamento di tutti. Di tutto un popolo, come ci ricordava il Siracide, o di tutta una comunità, come diceva il vangelo, anche a vantaggio di coloro che vengono, se vogliamo, a sfruttare “ la sua ombra”. Credo che sarebbe proprio bello se la nostra comunità si trasformasse e diventasse un luogo d’ombra, ovvero un luogo di ristoro, anche per chi ha poca fede o, addirittura, per chi non ne ha, o per chi ne professa un’altra. Che bello se tutti scoprissero che la nostra chiesa è un luogo di riparo e di ombra per tutti coloro che cercano pace.
- Siamo disposti a fare questo?
- Siamo disposti ad essere quel resto fedele che offre questo rifugio a tutti?
Dipende da noi e dalla grazia di Dio che lavora in noi!