Quinta Domenica di Quaresima o di Lazzaro
“Solo quando si riconosce l’impronunciabilità del nome di Dio si può anche pronunciare finalmente il nome di Gesù Cristo; solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo; solo quando ci si riconosce sottomessi alla legge di Dio, si può finalmente parlare anche della grazia, e solo dell’ira e la vendetta di Dio contro i suoi nemici restano realtà valide, qualcosa del perdono e dell’amore verso i nemici può toccare il nostro cuore. Chi vuole essere e sentire troppo frettolosamente e troppo direttamente in modo neotestamentario, secondo me non è cristiano…Non si può e non si deve dire l’ultima parola prima della penultima. Noi viviamo nel penultimo e crediamo nell’ultimo ”. Concludo queste introduzioni alle riflessioni delle domeniche di quaresima ancora con una citazione di Bonhoeffer che mi sembra possa aiutarci a riflettere sull’articolo del credo che ci proponiamo di approfondire oggi con la meditazione sulle scritture che abbiamo appena terminato di ascoltare.
L’ articolo del Credo:
Credo la risurrezione della carne… la vita eterna… la vita del mondo che verrà.
Vangelo
Gv 11, 1-53
✠ Lettura del vangelo secondo Giovanni
In quel tempo. Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto. Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.
“Solo quando si ama a tal punto la vita e la terra…”. Così abbiamo letto nell’introduzione. È questa la posizione di Marta, di Maria e di Lazzaro. Ai primi sintomi di quella malattia che lo condurrà poi alla morte, ecco che c’è un tentativo di coinvolgere il Signore in quella situazione, in quella difficoltà, in quella malattia che aveva ricordato a tutti, anzitutto a Lazzaro, che l’essere dell’uomo è tutto indirizzato verso quell’ultimo evento dell’esistenza, verso quell’ultimo momento che è la morte, evento che solo San Francesco ha avuto il coraggio di chiamare “sorella”. Ecco il perché, poi, del lutto, condotto con la mentalità ebraica: ecco le donne per il pianto, per le lamentazioni; ecco gli uomini accorrere a Betania per portare quel conforto umano che fa bene a tutti, ma anche per vivere quell’attesa insita nel senso di fede di ciascun ebreo.
Il popolo ebraico, infatti, riteneva che dopo la morte di un uomo, la sua anima continuasse a rimanere nei pressi della salma per tre giorni. Trascorso questo tempo, se non vi era stato alcun segno di vita, era assolutamente chiaro che non c’era più nulla da fare: il proprio caro era indubitabilmente morto. Avrebbe vagato per l’eternità nello “shoeol”, il regno delle anime, senza luce ma senza ombra, senza gioia ma senza dolore, un “regno medio”, come, da sempre, aveva ritenuto Israele.
È per questo che Gesù si attarda nel luogo dove si trova, è per questo che non interviene subito. Egli vuole che sia chiaro che il miracolo che sta per compiere sia un vero miracolo di risurrezione e non uno dei tanti casi di guarigione che Egli avrebbe potuto compiere. Il motivo è molto semplice: siamo ormai molto vicini alla sua Pasqua, alla sua morte e Risurrezione. Il maestro vuole aiutare il discepolo ad immergersi in quell’abisso di dolore che sarà anche la sua morte, per prendere poi vera parte alla gioia della risurrezione, fatto unico, inaudito, incomprensibile per la mente dell’uomo se non ci fosse l’aiuto di Dio. “Non si può e non si deve dire l’ultima parola prima della penultima”, abbiamo letto nell’introduzione. Non si può comprendere la risurrezione né il valore della vita eterna, se non passando attraverso la sofferenza e, se vogliamo, lo scandalo della morte. Nemmeno il Figlio di Dio ha voluto saltare questo passo della vita che rende tutti gli uomini uguali di fronte all’ultimo mistero dell’esistenza.
È proprio a partire da questa sofferenza, proprio a partire dal rimpianto per la bellezza della vita e l’ineluttabilità della morte, che Gesù opera il miracolo. Piangendo insieme con le sorelle, compagno vero del loro dolore, Gesù ordina che sia aperta la tomba di Lazzaro e a gran voce chiama fuori colui che era veramente e definitivamente morto. Insegnando così che è il corpo che risorge, non solo l’anima! Insegnando così che il corpo dell’uomo, quello che segna la sua appartenenza a questo mondo, quello con cui si compiono tutte le attività dell’esistenza, non è destinato alla tomba, ma alla risurrezione; non è destinato alla corruzione, ma alla vita; non è destinato alla terra, se non come “penultimo” stato. Lo stato finale di ogni corpo è la risurrezione in Cristo e con Cristo. È questa la gioia che si accende nel cuore di Marta e di Maria, che, pure, avevano già professato la fede nella “risurrezione dell’ultimo giorno”, come, pure, il loro essere totalmente disposte a credere nella parola che il Signore rivela e nei gesti che Lui compie. È dunque la carne che è chiamata a risorgere dai morti, come la risurrezione di Cristo lascerà comprendere ancor più e ancor meglio.
Efesini
Ef 2, 4-10
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Paolo, conquistato da Cristo, reso partecipe della sua morte e della sua risurrezione, avrà modo di riflettere più volte, nelle sue lettere, attorno a questo fatto centrale della vita cristiana, vero cuore della fede di coloro che si professano credenti. Ribadendo, così, quello che noi abbiamo già compreso dal Vangelo: nel cristiano c’è un “gusto per la vita” che nessun altro uomo ha.. questo “gusto per la vita” si esprime nel “compiere le opere buone predisposte da Dio perché noi le praticassimo” di cui ci parlava la scrittura. Eppure San Paolo ha compreso bene che noi siamo “per grazia salvati” e cioè che, nonostante le opere buone che noi possiamo praticare e nonostante i meriti che noi possiamo acquisire, noi verremo salvati da Cristo e in Cristo. Le opere hanno il loro merito, ma non possono produrre, esse sole, la salvezza. “Siamo opera sua…”, concludeva San Paolo, e la sua opera è quella che, ultimamente, si esprime nella risurrezione.
Esodo
Es 14, 15-31
Lettura del libro dell’Esodo
In quei giorni. Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco, io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito, sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri». L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò dietro. Andò a porsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello d’Israele. La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono, e tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare. Ma alla veglia del mattino il Signore, dalla colonna di fuoco e di nube, gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spingerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!». Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare; Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto, e il popolo temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo servo.
Discorso difficile da capire, come l’immagine adombrata nell’Esodo lasciava percepire. Il medesimo fatto, che, nella lettura è la notte dell’Esodo, cioè il passaggio del mar Rosso, diventa per gli Ebrei inizio di un cammino verso la luce, per gli Egiziani uno sprofondare progressivamente nelle tenebre, nel dolore e nella morte. Così e, per tutti gli uomini, di fronte alla morte. Per alcuni è occasione di tenebra, confusione interiore, disperazione, rassegnazione. Per i credenti, il passare pure attraverso il dolore e il pianto, è però fonte di luce, nella fede in Cristo risorto dai morti. La fede non cancella la fatica di passare attraverso le “cose penultime”, ma apre ad una luce rincuorante e rassicurante. Come al popolo degli Ebrei non è stata risparmiata la fatica di un cammino, indirizzato, esso pure, verso la luce.
Per noi
Anche oggi, pur in questa lontananza che ci pesa e che intristisce, non vogliamo perdere l’occasione per cercare di approfondire questo articolo del credo.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà è una verità di fede che ci dice che a risorgere non sarà solo la nostra anima, ma il nostro corpo, questo nostro corpo, quello che ha permesso tutte le esperienze della vita, quello che ci ha accompagnato dal primo e fino all’ultimo giorno della nostra esistenza.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà ci ricorda che, al momento della nostra morte, l’anima conosce subito quel “giudizio particolare” che, mettendo tutto davanti alla misericordia di Dio, ci farà partecipi di quello stato di vita di redenzione, purificazione o dannazione che la nostra libertà avrà scelto e costruito in questa esistenza che ci è stata donata.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà sarà ancora attesa di quel “giudizio universale” che solo il Padre conosce, nel quale Dio, mettendo fine al tempo, permetterà la risurrezione dei corpi e allora, nella riunione dell’anima e del corpo, per sempre, saremo nella beatitudine eterna o nella dannazione eterna.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà è professione di fede di chi comprende che la vita dell’uomo ha senso solo nella luce della Risurrezione di Cristo. Da qui dipende lo stile di vita che riguarda il presente. Se viviamo nella prospettiva di fede, il nostro non è un “essere per la morte”, ma un “essere per la vita”, quella eterna, donata da Dio in Cristo risorto.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà non pone contraddizione tra misericordia e giudizio, tra salvezza (paradiso) e dannazione (inferno). La possibilità che la libertà si distanzi enormemente da Dio tanto da rifiutare quella salvezza eterna che in Cristo è promessa a tutti, è reale. Se è chiara la volontà universale di salvezza di Dio che si attua in Cristo, è altrettanto chiaro che la libertà dell’uomo può chiudersi a questa rivelazione di misericordia e rendere vana perfino la risurrezione di Cristo.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà ci dice anche che è possibile morire nell’amicizia con Dio, destinati alla vita eterna, ma anche essere bisognosi di un’ulteriore purificazione dopo la morte. È il purgatorio, condizione di preparazione alla vita eternamente beata in Dio, concessa all’anima dopo la morte del corpo. In virtù della “comunione dei santi” noi possiamo aiutare le anime del purgatorio con la preghiera, con l’offerta della penitenza e mediante la celebrazione applicata a suffragio dell’anima che vogliamo ricordare. Solo questi aiuti alleviano la condizione delle anime purganti e avvicinano a quella beatitudine eterna che è reale nel regno dei cieli.
Credo la risurrezione della carne, credo la vita eterna, credo nella vita del mondo che verrà è un articolo di fede che, per molti aspetti, supera la nostra stessa possibilità di immaginazione e di comprensione. È per questo che, anche San Paolo, ci ricorda, nelle sue lettere, che di questa realtà possiamo parlarne solo con simboli, immagini, senza poter giungere ad una totale comprensione delle cose. È solo la luce della fede che può rischiarare il cammino.
Appunto come ci ha detto l’Esodo: cerchiamo di fare in modo che, per noi, la fede nella risurrezione sia luce di vita eterna e non buio e dubbio mortale.
Per concludere.
Vorrei oggi concludere con un’altra citazione di Bonhoffer, una sua poesia.
Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
Stiamo vicini a Dio nella sua sofferenza anche nei prossimi giorni e, soprattutto, nella settimana santa, nonostante il tempo difficile che si prepara e una Pasqua differente da tutte quelle della nostra vita.
Solo così saremo illuminati mentre viviamo le “realtà penultime” della nostra esistenza, in attesa di quella “realtà ultima” che è la vita eterna.
Credo la vita eterna
Di Carlo Maria Martini
Il Dio che ha fatto suoi il tempo e la morte, ha dato a noi la sua vita, nel tempo e per l’eternità. La Pasqua del Signore rivela la solidarietà del Dio vivente alla nostra condizione di abitatori del tempo, e insieme ci dà la garanzia di essere chiamati a divenire gli abitatori dell’eternità. Nella risurrezione di Cristo ci è promessa la vita, così come nella sua morte ci era assicurata la vicinanza fedele di Dio al dolore e alla morte. La Pasqua è l’evento divino nel quale ci è rivelata e promessa la destinazione del tempo al suo felice compimento nella comunione in Dio. Lo spazio temporale che sta tra l’ascensione e il ritorno di Cristo nella gloria appare così come un estendersi del mistero pasquale all’intera vicenda umana: nella sofferenza e nella morte, che ancora caratterizzano la nostra storia, si fa presente la sofferenza della croce, perché la vita del Risorto sia pregustata da chi con Cristo percorre il suo esodo pasquale. L’intera vita del cristiano è un pellegrinaggio di morte e risurrezione continua, vissute con Cristo e in Cristo nello Spirito, portando anzi Cristo in noi, «speranza della gloria». Vigilare è accettare il continuo morire e risorgere quale legge della vita cristiana; le condizioni della vigilanza evangelica non sono dunque la stasi o la nostalgia, bensì la perenne novità di vita e l’alleanza celebrata sempre nuovamente col Signore Gesù che è venuto e che viene. Nella luce dell’evento pasquale si coglie allora il pieno significato cristiano della morte fisica, ultima vicenda visibile della nostra esistenza. La morte è evento pasquale, segnato contemporaneamente dall’abbandono e dalla comunione col Crocifisso risorto. Come Gesù abbandonato sulla croce, ogni morente sperimenta la solitudine dell’istante supremo e la lacerazione dolorosa; si muore soli! Tuttavia, come Gesù, chi muore in Dio si sa accolto dalle braccia del Padre che, nello Spirito, colma l’abisso della distanza e fa nascere l’eterna comunione della vita. Perciò, per la grande tradizione cristiana la morte è dies natalis, giorno della nascita in Dio, dell’uscire dal grembo oscuro della Trinità creatrice e redentrice per contemplare svelatamente il volto di Dio, in unione col Figlio, nel vincolo dello Spirito Santo.
Tutto ciò che segue alla morte viene letto dalla fede nella luce dell’evento pasquale di Gesù. Il giudizio è l’incontro con lui che raggiunge la persona col suo sguardo penetrante e creatore e la porta alla piena conoscenza della verità su se stessa davanti all’eterna verità di Dio. La sua vigilante anticipazione avviene nel confronto della coscienza con la Parola, nella celebrazione del sacramento, in particolare della riconciliazione, nell’incontro con il fratello bisognoso di aiuto. L’inferno è la condizione insopportabilmente dolorosa della separazione da Cristo, dell’esclusione eterna dal dialogo dell’amore divino; possibilità tragica e però necessaria se si vuol prendere sul serio la libertà che Dio ha dato all’uomo di accettarlo o di rifiutarlo.
L’inferno, in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità suprema della vita umana, il valore sommo della vigilanza e la tragicità del male; proprio per questo e in tutto questo evidenzia l’amore del Dio che, creandoci senza di noi, non ci salverà senza di noi. Egli, infatti, che ci ha amati quando ancora eravamo peccatori, rimarrà separato da noi solo se noi ci ostineremo nell’essere separati da lui. Il purgatorio è lo spazio della vigilanza esteso misericordiosamente e misteriosamente al tempo dopo la morte; è un partecipare alla passione di Cristo per l’ultima purificazione che consentirà di entrare con lui nella gloria. La fede nel Dio che ha fatto sua la nostra storia è il vero fondamento del credere a una storia ancora possibile al di là della morte, per chi non è cresciuto quanto avrebbe potuto e dovuto nella conoscenza di Gesù. L’anticipazione di tale spazio è il tempo dedicato alla cura della finezza dello spirito che si nutre di sobrietà, distacco, onestà intellettuale, frequenti esami di coscienza, trasparenza del cuore, unificazione della vita sotto la regia della sapienza evangelica: come pure dell’ascesi e della purificazione necessarie per fortificarci nella tentazione, scioglierci dall’inerzia delle nostre colpe e liberarci dall’opacità delle nostre abitudini cattive. Il paradiso è l’essere eternamente col Signore, nella beatitudine dell’amore senza fine: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). La parola del Crocifisso al ladrone pentito è la rivelazione di ciò che il paradiso è: un «essere con Cristo», un vivere eternamente in lui il dialogo dell’amore col Padre nello Spirito Santo. Questa relazione con il Signore, di una ricchezza per noi inimmaginabile, è il principio essenziale, il fondamento stesso di ogni beatitudine dell’esistere. La vigilanza si esercita nell’anticipazione della gioia dell’incontro con il Signore e nella letizia della comunione fraterna vissuta con tutti coloro che ne condividono il desiderio.
La figura di tale anticipazione è così profonda e delicata da farci comprendere l’importanza della vita contemplativa, pur se la sostanza dell’anticipazione appartiene a ogni vita di fede, sollecitata a diventare esperienza vissuta nella confidenza con il Signore e nella fiducia della sua tenera cura. La spiritualità del Cantico dei cantici – lo insegna una tradizione spirituale costante e sempre rinnovata del cristianesimo – è dunque una dimensione vitale della nostra relazione quotidiana con Dio; è il tempo dell’innamoramento, destinato a consumarsi nell’esuberanza dell’amore, da coltivare, custodire, impreziosire nell’intimità di un dialogo che raggiunge le fibre più sensibili del nostro essere.
Infine, nella luce della risurrezione di Gesù possiamo intuire qualcosa di ciò che sarà la risurrezione della carne. In essa l’essere con Cristo si estenderà ad abbracciare la pienezza della persona e la globalità dell’esperienza umana anche nella sua dimensione corporea, così come la risurrezione del Crocifisso nella carne ha portato nella vita eterna la carne del nostro tempo mortale, fatta propria dal Figlio di Dio. L’anticipazione vigilante della risurrezione finale è in ogni bellezza, in ogni letizia, in ogni profondità della gioia che raggiunge anche il corpo e le cose, condotte alla loro destinazione propria, che è quella delle opere dell’amore.
Non dobbiamo dimenticare che il cristianesimo, con alterne vicende, ha condotto una dura battaglia per respingere l’impulso al disprezzo del corpo e della materia in favore di una malintesa esaltazione dell’anima e dello spirito. L’esaltazione dello spirito nel disprezzo del corpo, come l’esaltazione del corpo nel disprezzo dello spirito, sono di fatto il seme maligno di una divisione dell’uomo che la grazia incoraggia a combattere e a sconfiggere. La vigilanza consiste nell’esercizio quotidiano dei sensi spirituali, ossia degli stessi sentimenti che furono di Gesù, nella coltivazione della sapienza evangelica che unifica l’esperienza e ci consente di apprezzare i legami fini e profondi del corpo con lo spirito. In tal modo possiamo custodire fin d’ora, in attesa che si compia la promessa della risurrezione della carne, il piacere della libertà del corpo da tutto ciò che è falso e ottuso, laido e volgare, avido e violento. La fede nella risurrezione finale ci aiuta quindi a valorizzare e amare il tempo presente e la terra. La vigilanza cristiana, illuminata dall’orizzonte ultimo, non è fuga dal mondo, bensì capacità di vivere la fedeltà alla terra e al tempo presente nella fedeltà al cielo e al mondo che deve venire. Nella luce della Pasqua, i novissimi – morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso e risurrezione finale della carne – sono tutte forme dell’essere con Cristo, che è promesso e donato all’abitatore del tempo e si configura a seconda del rapporto che, nella vigilanza o nel rifiuto, si stabilisce tra ogni persona umana e il Signore Gesù